lunedì 28 settembre 2015


ETICA DEL DISCORSO





Si parte dal presupposto che “ogni soggetto capace di parlare e di agire, quando entra in qualche argomentazione per esaminare criticamente una pretesa ipotetica di validità, deve affidarsi a presupposti dotati di contenuto normativo.” Insomma, c'è un “già” di cui noi – i soggettivisti – non tengono conto : già nel momento in cui si risponde ad una critica, si è entrati in un campo di discussione, di argomentazione, e dunque deve in qualche modo presupporre, per poter essere compreso dagli altri e affinché l'argomentazione sia sensata, delle regole trascendentali o preteoretiche. Si deve, soprattutto, sottintendere il principio di universalizzazione, estensione dell'imperativo categorico kantiano. Questi principi, per Habermas e Apel, sono tacitamente accettati. Gli stessi parlano dell'etica del discorso come una “disposizione istituzionale”1 necessaria per neutralizzare le influenze empiriche o emozionali nel discorso.
Questo p.d.U. è l'unico principio morale di cui si possa parlare, principio non contenutistico e preteoretico, che non prende quindi parte dell'argomentazione stessa ma la presuppone.
Si tratta, senza dubbio, di un platonismo di ritorno, soprattutto quando Apel la comunità ideale che deve essere attuata, effettuata, da quella reale.
L'ambiguità di questa teoria etica non può oscurare tuttavia la sua urgenza, l'urgenza di un etica “planetaria” , che trascenda dal singolo paese o dalla singola nazione. Pare evidente inoltre che, se si arriva alla necessità di trattare una “macroetica”, il valore dei rapporti internazionali e dei trattati politici è di fatto screditato per la sua insufficienza. Fondamentale diviene non tanto il “cosa devo fare?” ma “perché devo fare quel che è scritto che debba fare?” ; una tavola di Comandamenti ci dice solo cosa fare, non perché. Sembra però che Apel e Habermas non rispondano esaustivamente a questa nostra pretesa di senso ; d'altronde, se lo facessero, se ci dessero in mano un “perché”, siamo certi che questo possa essere accettato da tutti?
Se la morale può esser vista come un “fare ciò che è scritto che io debba fare”, se quindi il suo aspetto normativo è stato talvolta accettato senza ulteriori pretese2 di senso e dunque si può parlare di un sistema di adattamento dall'uomo alla norma, al contrario la morale kantiana – e di conseguenza anche quella habermasiana – ribalta questa prospettiva : è la norma che deve adattarsi all'uomo, è la norma che, per essere tale, deve poter essere “accettata liberamente da tutti”.
Si presentano, al lettore attento, molti dubbi :
  • Come giustificare questa equivalenza tra teoria e prassi? Come dunque giustificare il passaggio da una teoria logico-semantica ad una teoria dell'azione?
  • Nel momento in cui io discuto della teoria stessa e del principio di Universalizzazione, non nasce il problema “del terzo uomo”? Non sto presumendo la teoria stessa nell'argomentazione?
  • Dov'è lo spazio per la malafede? Per l'inconscio? Le disposizioni individuali sono sempre trasparenti a se stesse?
  • Dov'è lo spazio per la “devianza”?

Come si può parlare di scelta “libera” quando l'argomentazione usata da Habermas e Apel è proprio che noi non siamo liberi di non argomentare? Il diktat dell'etica del discorso : non possiamo non partecipare alla discussione. Anche chi si rifiuta cade in una contraddizione ineluttabile : “altrimenti, dovrebbe cercare rifugio nel suicidio o in una grave malattia mentale. In altre parole, non può sbarazzarsi della prassi comunicativa quotidiana, nella quale è continuamente costretto a prendere posizione con un <sì> o con un <no>”3...
Si parla, per l'appunto, di una costrizione a discutere ; in effetti non si può agire se non comunicativamente, inserendosi inevitabilmente in una discussione.
Una breve summa di questo tipo di ragionamento è : “Dal momento in cui noi ci immettiamo in una discussione, e dal momento in cui una discussione è tale se rispetta determinati assunti – quale, ad esempio, quello di portare ad una conclusione – non è possibile rispettare questi assunti se non comportandoci in una determinata maniera.”
Ora, il problema è che, per Habermas e Apel, questa maniera è esclusa dalla discussione! Insomma, è “fuori discussione” che il principio di ogni discussione sia (U), il Principio di Universalizzazione proposto dagli stessi autori, in quanto questa determinata maniera di comportarsi è, per loro, preteoretica e quindi indiscutibile!
La domanda che è appare qui ovvia è : con quale procedimento gli autori giungono a questo principio? Non si tratta di una mera deduzione ?


1 J. Habermas, Etica del discorso, Laterza, Bari 1985, p. 102
2  Ciò è certamente accreditabile alla morale cristiana.
3 J. Habermas, Ivi, p. 111

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