mercoledì 14 gennaio 2015

Che cosa significa insegnare?

                   








“Ma cosa hanno mai fatto i ragazzi, gli
adolescenti, i giovanotti che dai sei fino ai
dieci, ai quindici, ai venti, ai ventiquattro
anni chiudete tante ore del giorno
nelle vostre bianche galere per far patire il
loro corpo e magagnare il loro cervello?
Gli altri potete chiamarli - con morali e codici
in mano - delinquenti ma quest'altri sono,
anche per voi, puri e innocenti come usciron
dall'utero delle vostre spose e figliuole. Con
quali traditori pretesti vi permettete di
scemare il loro piacere e la loro libertà
nell'età più bella della vita e di
compromettere per sempre la freschezza e la
sanità della loro intelligenza?”
G. Papini, Chiudiamo le scuole, 1914










Cosa significa insegnare?
L'esigenza di una tale domanda e di un'adeguata risposta si fa straordinariamente presente in questi
ultimi anni, dove l'istituzione scolastica è stata sempre più inglobata nel vortice tormentato della
finanza e dell'economia. Tormentata lo diviene dunque anch'essa, la scuola, poiché ad una
recessione economica corrisponde sempre più automaticamente una regressione della “capacità
culturale” degli individui, della loro predisposizione alla cultura.
È propriamente il ruolo dell'insegnante che, nella sua importanza, racchiude in sé la possibilità del
cambiamento, della “rivoluzione” ; ma è anche l'insegnante stesso che si manifesta come incapace
di “produrre soggettività”, giacché fagocitato lui stesso nell'immobilità del sistema che cerca di
respingere.
Non ci possiamo esimere, dunque, dal compiere una breve analisi delle problematiche che questa
figura – e, assieme ad essa, l'istituzione scolastica – reca con sé.
Come ci ricorda la De Conciliis, insegnare significa “fare un segno dentro qualcuno” ; l'insegnante,
colui “che segna”, non ha però a che fare con degli oggetti, non deve imprimere un segno su carta.
Egli ha dinanzi a sé degli individui : la figura dell'insegnante è una figura di potere, e quindi una
figura “politica” in senso stretto (l'avere-a-che-fare-con è sempre sintomo di politicità di un'azione).
Ci è rapidamente chiara la responsabilità di questa figura :


“L’insegnamento produce soggettività : in termini foucaultiani,
è una tecnica di governo degli altri che implica il governo di sé,
una forma di potere-sapere che è in grado di formare anche l’oggetto
su cui si esercita.”


Nella potenza di questa affermazione, ne è racchiusa una altrettanto scottante : il ruolo
dell'insegnante non può essere ingabbiato in alcun modo, proprio perché egli ha a che fare con delle
individualità “da forgiare” che richiedono una flessibilità che l'istituzione – in quanto istituita,
ordinata – non può concedergli.
Immobilizzato nelle catene dell'ordinanza, il docente vede scomparire di senso la sua attività.
Com'è che egli si ritrova, d'improvviso, con un nulla in mano?
Innanzitutto, il primo atto di una decostruzione della società pedagogica è sicuramente quello della
analisi della figura infantile : secondo la De Conciliis – e secondo Foucault – il fanciullo è divenuto
nient'altro che una copia, in formato minore, dell'uomo adulto :


“[...]Il ridimensionamento del ruolo premoderno (sociale e simbolico)
degli ‘adulti in miniatura’ appare direttamente proporzionale al loro
inserimento nel processo produttivo capitalistico, a cui seguirà la
produzione/protezione della loro anima, che, sul piano della cultura,
equivale all’elaborazione del mito pedagogico del fanciullo.”


L'infante, come ogni altro individuo, è assoggettato ; ed è propriamente l'insegnante colui che opera,
in primo luogo, questo assoggettamento. Focalizziamoci su una situazione scolastica : determinati
individui sono co-stretti – sono stretti fortemente, sono legati – a vivere, ogni giorno, un minimo di
cinque ore assieme ad altri individui selezionati casualmente ; se ciò non basta a definire la
situazione poco felice dell'allievo, basti sottolineare che egli :


“[...]è un piccolo selvaggio che al termine del processo educativo
deve risultare adeguato all’investimento dell’imprenditore
universale – trasformato in cittadino.”


In secondo luogo, la modernità si caratterizza anche come un “impiego totale del tempo” : viene
infatti bandito il vuoto dell'ozio, il cosiddetto “tempo libero”. Persino a scuola, la ricreazione
consiste in un tempo limitato, come a dire che gli allievi debbano avere un determinato tempo,
uguale per tutti, per poter giocare.
Sin da quest'esempio, possiamo cogliere come ciò che noi chiamiamo “scuola” non sia esattamente
ciò che noi crediamo che sia, ovvero un posto per istruire. O meglio, essa è IL posto dove tutti
vengono istruiti allo stesso modo, dove si applica come non mai la massificazione ; perché, per
l'appunto, l'insieme disordinato di allievi deve essere programmaticamente e-ducato : dobbiamo
trarre fuori dagli allievi la loro cittadinanza, il loro essere adulti. Epperò, in tal modo noi non
“insegniamo” nulla, ma operiamo come una gigante fabbrica, come un'enorme catena di montaggio,
il cui risultato sono gli studenti a fine carriera.
Esiste, quindi, una vera e propria ideologia scolastica, sebbene possa sembrare assurdo ai nostri
occhi ; dopotutto, noi tutti siamo frutto di questo sistema, siamo stati educati proprio per operare nel
“migliore” dei modi possibili. Peccato che questo “miglior modo” sia stato scelto per noi al posto
nostro. Siamo stati strutturati in maniera unitaria senza consenso, sebbene anche una qualsiasi
forma di dissenso sarebbe stata vana : essa sarebbe apparsa, agli occhi dei più, come follia.
Le parole della De Conciliis – che ricalcano inevitabilmente quelle dell'imenso Foucault – sono
dure :


“L’identità scolastica non è fissa, ma mobile: si mira alla
promozione, come nell’esercito. La disciplina crea una
microgerarchia in cui il singolo può investire per guadagnare
un micropotere o un riconoscimento simbolico sugli altri
(ad esempio diventando capoclasse) e assoggettarsi
così ‘volontariamente’ alle regole del sistema
disciplinare; attraverso la ricompensa del merito e
della buona condotta s’inculca la necessità identitaria e
progressiva dell’obbedienza: ‘come divento qualcuno?'
- 'obbedendo a qualcuno.”


La disciplina, il voler militarmente eguagliare tutti gli studenti, non è il solo aspetto da decostruire.
Secondo Foucault, che in Sorvegliare e punire traccia una storia dell'istituzione scolastica
intrecciandola con quella del sistema penale, il sistema scolastico non è altro che una “metamorfosi
laica del potere pastorale cristiano, capace di piegarne le tecniche di soggettivazione a fini secolari.”
Il docente ha, dopotutto, preso il posto del sacerdote – affermazione che sosteneva già Illich :


“E come dio in miniatura, come umile pastore che l’insegnante
deve incarnare per l’alunno l’onnipresenza dello sguardo: Dio ti vede,
f a i compiti. La voce del maestro ripete la voce del Signore
che conosce omnes et singulatim , chiama per nome e
ordina fino a ottenere l’obbedienza perinde ac cadaver (SP 182).
Emissario e ministro della divinità scolastica, egli conduce
l’alunno alla completa interiorizzazione psicofisica,
conscia e inconscia, dell’autorità - perciò su quest’aspetto
sacerdotale dell’insegnamento s’innesta perversamente
quello giuridico, che intronizza il meccanismo
penale con cui il maestro fa funzionare la disciplina
ch’egli stesso ha interiorizzato, e a cui deve continuare
a obbedire.”


Alla luce di queste brevi considerazioni – che non sono che un breve assaggio dell'interessantissimo
lavoro della De Conciliis – come possiamo “riabilitare” la figura dell'insegnante?
Se pensiamo agli ultimi corsi che Foucault tenne al Collège de France sul concetto di parresìa,

ebbene qui egli afferma che “Il maestro è il discorso stesso che dice il vero.” Sorge spontaneo il
chiedersi cosa sia il vero e come si possa dirlo ; nell'antichità, la verità consisteva nel “dire tutto”,
nel “parlar franco”, e ciò ci rende manifesto come il concetto di verità fosse un concetto
essenzialmente politico. Per tale ragione, Foucault intitola il suo ultimo corso “Il coraggio della
verità”, proprio perché la verità era, per i greci, l'atto del dire ogni cosa – e dunque dell'avere il
coraggio di dire ogni cosa ; i cinici erano, non a caso, i “dispensatori di verità”, proprio per la loro
attitudine a dire “ogni cosa” in “ogni caso”.
Dire il vero ad ogni costo : è inevitabile non riferirci a Socrate, al fatto che, proprio per questa sua
pratica di dire il vero, perse la vita. Socrate, con il suo comportamento, incarnava una vera e propria
rivoluzione politica.
E se l'insegnante esercitasse proprio questo potere? Il potere del non-potere, il potere del mettersi in
gioco completamente ?
La parresìa, dopotutto, s'insegna solo con l'esempio, non con le parole :
 

“[...]la verità, che non è un oggetto ma la
soggettivazione stessa, non si apprende mai definitivamente - e
tuttavia il maestro parresiasta si rende superfluo, si toglie
in senso hegeliano, lasciando libero il soggetto. Egli esercita
infatti un potere che si nega come tale, si autodistrugge
nel momento stesso in cui agisce: un paradossale
potere anti-pastorale che mira a far divenire l’allievo,
alla lettera, sovrano autonomo della propria persona,

 governatore della propria soggettività.”


In tal senso, quello che l'insegnante parresiasta ci in-segna, non è un sapere, ma uno stile di vita.


Foucault è stato il primo a legare un atteggiamento di cura degli altri – il dire il vero, per l’appunto – a quello di una cura di sé : è proprio questo stile di vita, che impone un mettersi in gioco continuativo, che fa assumere all’individuo una responsabilità morale.

La vera “democrazia” , non a caso, fu quella greca : la capacità del dir-vero era quella richiesta agli individui nell’agorà nell’esprimersi, nel prendere-parola ; solo l’atteggiamento cinico del parresiasta può spezzare le catene invisibili del potere, dal momento in cui non siamo e non saremo mai del tutto consapevoli della totalità dei meccanismi del potere che ci ingabbiano. L’agire cinico, implica il fatto che il concetto di verità non assuma una valenza metafisica, né tanto meno ontologica ; piuttosto, la verità è un evento. La verità è l’atto di dire tutto, di non omettere nulla.

Se pensiamo a questo atteggiamento, un insegnante sarebbe costretto a trattare chi ha di fronte come una soggettività ancora prima di formarla, prima cioè di imprimere il suo “marchio di fabbrica” : si concede all’allievo il privilegio della responsabilità, sebbene, come sottolinea fortemente Foucault, l’essere parresiasta comporta sempre una lacerazione, una frattura dialogica. Il dire la verità implica sempre un rischio di scontro, di sofferenza, ma hegelianamente questa negatività ha una valenza costitutiva : il rischio di morte è il solo evento che ci rende coscienti dell’esistenza.
Come asserisce infine la De Conciliis, è nell'adolescenza che si può sperare di formare individui che
“non si lasceranno fregare da un mediocre pastore o dalle forme mediatico-populistiche assunte
dall’economia politica.”
Eppure, il concetto di parresìa ci rende coscienti di un altra questione : sebbene tutti possano
comprendere il concetto parresiasta, l'insegnamento non è per tutti, poiché essa (la parresìa) “deve
esser fornita come esempio incarnato (magistrale) a tutti , ma solo alcuni la incarneranno a loro
volta.” Il conservatorismo di molti docenti li dirige verso la pedagogia classica, verso
comportamenti stereotipati e non giustificati ; li guida, soprattutto, verso una totale astensione nel
porsi delle domande sul proprio ruolo.
Solo lui, tuttavia, può sabotare il meccanismo risvegliando gli studenti; solo lui può dischiudere gli
occhi obnubilati di chi non è più abituato a vedere.

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